05 agosto, 2013

Concreto-astratto

Ancora oggi le grammatiche insistono, allorquando è illustrato il sostantivo, sulla distinzione tra concreto ed astratto. E’ in primo luogo una dicotomia e, come tutte le dicotomie, presuppone una concezione dualistica. Non solo, tale divisione è di natura ontologica e non linguistica. Vero è che la lingua è lo strumento in cui la realtà è interpretata e persino “creata”, poiché un fenomeno si sporge nell’esistenza, nel momento in cui è denotato.

Tuttavia l’antitesi astratto – concreto, inserita ex abrupto in un discorso morfologico, è forviante. Ad essa soggiace una complessa valenza filosofica e non può essere proposta come un’ovvietà. Che cosa significa “concreto”? La materia è “concreta”? Ne siamo certi? Il nome “Dio” è collegato ad un referente concreto o astratto? “Amore” è un sostantivo astratto, poiché il denotatum non è tangibile? E’ evidente che questa opposizione, più di molte altre, è non solo di sconvolgente superficialità, ma pure propaga la faciloneria fra gli studenti già vittime di plagi quotidiani.

Semmai bisogna indugiare sulle ragioni per cui i sistemi linguistici tendono a costruire delle coppie: attivo – passivo; singolare – plurale; maschile – femminile; transitivo – intransitivo etc. Quest’impianto dicotomico probabilmente rispecchia l’attuale funzionamento della mente umana, la contrapposizione tra emisfero destro e sinistro. [1]

L’architettura dualista dei codici, lungi dall’essere connaturata all’uomo, è il risultato di un processo con cui si è persa una duttilità linguistico-cognitiva nonché la ricchezza dell’espressione poetica. Molti idiomi antichi (si pensi, ad esempio, al greco ed al sassone) erano triadici. Tra singolare e plurale esisteva il trait d’union del duale; fra attivo e passivo si poneva il congiungimento del medio. Tracce di un’ossatura tripartita oggi sono disseminate nelle lingue contemporanee, come fossili, come relitti morfologici. Tra gli idiomi indoeuropei solo lo sloveno ha conservato il duale.

Il movimento involutivo che ha condotto all’estinzione del tertium datur pare, allo stesso tempo, “causa” e “conseguenza” di una regressione concettuale. Tale declino spinge gli uomini di oggi a “pensare” in modo manicheo, ad escludere dal ragionamento l’eventualità di una terza via, le sfumature, le gradazioni… [2]

Il “pensiero” si è divaricato in una “logica” che non coincide con una forma mentis aristotelica, piuttosto con un infantile e del tutto emotivo “mi piace vs. non mi piace” (Facebook docet) o anche “ci credo vs. non ci credo”. Ecco che ci schiera con una parte o con un’altra, in un aut aut che ricorda le veementi ed irrazionali partigianerie “sportive”. Dalla glottologia alle reazioni pavloviane in àmbito “politico” il passo è breve.

Tanti secoli di filosofia si sono inceneriti in bambinesche attrazioni-repulsioni. Come si può ritenere che si generino forme di consapevolezza e brilli qualche intuizione, se la ri-flessione si è tanto appannata? L’intelletto tende a distanziare, a separare, smarrendo l’unità. L’emisfero destro ed il sinistro non comunicano, non interagiscono: si rimane scissi, la concettualizzazione diventa schizofrenica. Il linguaggio dia-bolico si è incantato con il suo “nel senso che”.

Il lògos si è plastificato nell’incastro dei mattoncini Lego.

[1] La dualità in oggetto ri-specchia e pro-duce una dualità che inerisce a molti aspetti del mondo fenomenico, mentre l’anello di congiunzione è un ri-flesso dell’essenza.

[2] L’altra faccia di questo non-pensiero è l’assenza totale di discernimento per cui vero e falso sono intercambiabili, anzi confusi nella stessa grisaille.

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